Lo ammetto non mi sarebbe dispiaciuto fare teatro e forse sono ancora in tempo, ma probabilmente finirei in quel circolo del “provo a fare tutto nella vita e poi abbandono”. Il calcio, la pallavolo, nuoto, radio (amore mai sopito), mi ci manca il teatro per uno che si impappina quando parla normalmente, che non ha memoria, figuriamoci.
Al momento mi diverto ad andarci con mia madre almeno una o due volte l’anno, è il nostro classico appuntamento da qualche anno a questa parte, una cosa che ci unisce, anche se molto spesso, brutto da dirlo, siamo distanti anni luce.
Siamo passati da Genova con Roberto Vecchioni e Massimo Ranieri, mostri sacri, re della poliedricità che sanno con la musica, le parole, l’ironia, tenerti incollati alla sedia con gli occhi lucidi e poi farti sobbalzare in piedi in un applauso a scena aperta.
Poi Savona con Pierfrancesco Favino, il migliore attore italiano, che si presenta in scena con un’opera di Goldoni, lui romanaccio che veste i panni di un servo veneziano, malinconico a cui non manca l’ironia. Diventa una maschera che gli fa scivolare addosso l’etichetta del “Bartali” che tutti noi continuano a ricordare quando associamo il suo nome ma diventa sempre più artista, fenomeno che arriva al cuore.
Arriviamo ai giorni nostri, sempre nella meravigliosa cornice del teatro Chiabrera, sottovalutato forse, ma magico, immenso, dovunque ti giri avverti quell’aria di specialità, di unicità. Come al solito ci perdiamo e giriamo per dieci minuti come degli scemi, non saremmo madre e figlio del resto, ci accomodiamo, non siamo vicini ma uno davanti all’altro, scorgo la sua emozione, come sempre e io con lei.
Vincenzo Salemme, la napoletanità. Siamo legati a quella città e non potrebbe essere altrimenti viste le origini dei nonni materni, è come essere sempre uno di loro, in famiglia.
Parte la commedia degli equivoci, uno stile che amo particolarmente, ricordate Johnny Stecchino? Ecco, quella cosa lì dove esiste uno scambio di persona, dove la scena è incentrata su una battuta comica dubbia e confusa ma che fa letteralmente piegare dal ridere.
Questo abbiamo fatto per due ore, ridere a crepapelle con battute che probabilmente, quelle in napoletano stretto le ha capite solo mia madre, io neanche, sicuramente non i signori toscani abbottonati vicino a me.
La storia racconta del diciottesimo della figlia di Salemme, festa che nel meridione è considerata un pò come l’entrata in scena nella società della ragazza, importantissima per loro. Fervono i preparativi non mancano le scenette tra la moglie, il portiere del palazzo e il protagonista, il cameriere pugliese che fa finta di essere indiano per lavorare, il fidanzato ignorante figlio dell’assessore di turno. Poi muore il vicino di sotto, non si può festeggiare c’è un lutto in corso, la figlia psicopatica e poi tutta la storia che si viene a creare che non vi racconto perchè è stato creato anche un film e non vi spoilero niente.
C’è un momento che caratterizza totalmente la messa in scena, Salemme che parla da un presunto balcone con il vicino di casa, guardando la vista su Napoli che viene considerata come un presepe, arriva Natale e chiude la commedia con un “A me non piace il presepe”. Chiaro riferimento al più grande attore teatrale italiano di tutti i tempi Eduardo De Filippo che aveva al centro queste scene in “Natale in casa Cupiello“, must della famiglia Parodi-Altieri.
Il giusto e doveroso omaggio al maestro di Salemme, lui che da giovane ventenne lavorò con il celebre drammaturgo. Standing ovation finale, lo aspettiamo all’uscita del teatro, gentile e disponibile con tutti, ci fermiamo per una foto, siamo gli ultimi, mi concedo una battuta e lui mi racconta degli anni con Eduardo, mia madre commossa mi elogia dicendogli che lui è il suo-mio regalo di compleanno, non mancano gli sprazzi di napoletanità parlandogli di Torre del Greco. Potevo fargli l’intervista, avrebbe voluto ma mi va bene così, non volevo sentire altro per quella sera, domande e risposte me l’ero già date.
E non vedo l’ora che sia di nuovo l’occasione per tornare a ridere, emozionarmi e battere le mani.
Perchè il teatro non è morto, è vivo e vitale.
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